Tra Storia e Mito

Spingendosi indietro nei secoli, alla ricerca delle origini della pizza, si esce dalla Storia e si sconfina nella mitologia. L’inno pseudo-omerico “A Demetra”, la dea Madre, racconta che nelle peregrinazioni alla ricerca della figlia Persefone, rapita del dio degli Inferi Plutone, giunse ad Eleusi in Attica, dove fu ospitata da Celeo e Metanira. Per ricambiare l’ospitalità, Demetra diede l’immortalità al loro figlio Trittolemo. Sorpresa da Metanira durante il rituale segreto, la dea si adirò. Per placarla, Metanira le offrì un disco di farina e puleggio cotto. Questa sorta di pizza si sarebbe diffusa durante le Feste Elusine, celebrate da donne greche provenenti da Napoli e da Velia, e nelle botteghe pompeiane dei placentari, i pizzaioli dell’epoca. Infatti la pizza, oltre ad essere calda, è schiacciata. Una caratteristica che la riconduce alla placenta, dal greco plax (superficie schiacciata), di cui scrive Petronio nel “Satyricon”, proprio nella famosa Cena di Trimalchione. In quel brano sembra sia possibile trovare il collegamento linguistico con la parola pizza. L’atto del pestare e schiacciare, che ancora oggi i moderni pizzaioli perpetuano, deriva dal verbo greco pinso, da cui, appunto, pizza.      

Alimento per poveri, soldati e schiavi, esistevano vari termini per indicare la “focaccia impastata”: uno di questi era maza, fatta con orzo, artos, se fatta con farina lievitata. La maggior parte delle notizie sulle antenate della pizza le desumiamo dagli scritti di antichi poeti. Platone nella “Repubblica” (II, 372) scriveva che gli abitanti di una città ideale imbandendosi delle buone focacce e dei pani su un canniccio o su foglie ben nette, sdraiati su giacigli di tasso e di mirto, banchetteranno con i loro figliuoli, bevendoci su del vino, coronati di fiori, inneggiando agli dei e trattenendosi piacevolmente tra loro. Quella descritta da Platone, come si può notare, non è più la maza di poveri e schiavi, ma vera e propria protagonista di banchetti e momenti conviviali.

Vi erano, poi, delle varianti, come ad esempio la scriblìtes, una sorta di torta rustica con formaggio da servire calda. Ne scrivono anche il commediografo latino Plauto nella sua famosa opera “Poenulus” e Marziale in un epigramma in cui si legge che la focaccia (scriblita) bruciava le dita con il suo eccessivo calore. Il libum, invece, era una focaccia a base di cacio grattugiato, uova, farina, olio, cotta al forno (in Marziale ed in Virgilio). Esistevano anche il pastillus e la offa, citati da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”. Il primo si preparava con lievito, crusca e mosto bianco, a cui si aggiungeva la farina; la seconda, invece, era fatta a base di acqua ed orzo, cotta su un focolare o su un piatto di terracotta.

 

Germana Grasso    

 


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