Piacere della controra

sorbetto - testa articolo

 

Il filosofo Tommaso Campanella nel suo capolavoro La Città del Sole, descrivendo lo Stato ideale, scrisse: “essi non bevono annevato come i Napoletani, neanche caldo come li Cinesi…”. A Napoli, infatti, imperituro successo ha avuto l’arte gelatiera. In particolar modo il sorbetto, fin dal Seicento, fu ambita prelibatezza della controra partenopea.

 

Un’antica leggenda racconta che il sorbetto fu inventato casualmente da un pastore della Mesopotamia, che, assetato dopo tanto peregrinaggio, giunse su una montagna innevata e lì si dissetò con manciate di neve e succo di bacche selvatiche. Sembra che da allora in poi la consuetudine di sorbire neve aromatizzata abbia attraversato le storie dei popoli, dagli Arabi ai Greci, dagli antichi Romani fino all’epoca del Re Sole.

 

Secondo quanto riportato da Lejla Mancusi Sorrentino, la grande diffusione del sorbetto nel Regno delle Due Sicilie è da ascriversi ad una disputa scientifica che nel Seicento coinvolse l’Europa intera. I medici che seguivano le disposizioni di Ippocrate raccomandavano di evitare le bibite ghiacciate, mentre i seguaci dei precetti galenici le prescrivevano negli stati febbrili. Quindi a Napoli ed in Sicilia si iniziò a sorbire freddo per prevenire le malattie.

 

È dal Seicento, infatti, che l’arte gelatiera si affermò in tutte le sue varietà, compresa la famosa coviglia napoletana, un gelato reso più leggero dall’aria incorporata nella sua crema, che si trasforma in soffice spuma. Vincenzo Corrado, gastronomo del Settecento, tramandò oltre trenta ricette di sorbetti a base di fiori di gelsomino e di viole, di finocchi (“caroselle”), di semi di melone (“orgiato”), di uva Moscato (“moscadellone”), di frutti esotici. Fu nell’Ottocento che i cuochi, su consiglio del duca Ippolito Cavalcanti, introdussero il sorbetto a metà pranzo durante i cerimoniali di corte. Un’usanza sopravvissuta fino a pochi anni fa durante i banchetti di nozze, oggi considerata demodé e poco elegante per la gioia di satolli commensali.

 

Mentre nel resto d’Europa i sorbetti ed i gelati erano piaceri per ricchi signori, a Napoli anche il popolino, i lazzaroni, potevano goderne. Francesco Mastriani e Francesco de Boucard hanno descritto con dovizia di particolari il mestiere del sorbettiere ambulante che distribuiva variopinti sorbetti. Girava per le strade di Napoli, soprattutto durante gli afosi pomeriggi estivi, con un recipiente di legno, che conteneva le neve per raffreddare i sorbetti chiusi in un altro recipiente di stagno, che faceva ruotare per mantenere l’effetto del freddo. L’affascinate descrizione giunge a pennellare anche il sorbetto alla frutta, “perfetta immagine del nostro Vesuvio ricoperto di neve e solcato in uno dei fianchi da fiammeggiante lava”.

 

Portare la neve nel bicchiere non era cosa da poco. Gli abitanti nella zona del Monte Faito, in inverno, raccoglievano la neve e la custodivano in anfratti naturali o cantine lontane dal calore. Di notte queste grosse masse di neve erano condotte a dorso d’asino fino a Castellammare, dove erano imbarcate per Napoli e custodite in grandi cantine in alcuni vicoli napoletani, che, riporta Mancusi Sorrentino, ancora oggi nella toponomastica tramandano il ricordo del ruolo di custodi di un’antica prelibatezza partenopea.

 


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